Non è frequente, nella nostra Liguria, attendere settimane per sedersi a tavola di un ristorante nell’Olimpo degli chef del Bel Paese. Accade, invece, alla osteria Francescana di Massimo Bottura, a Modena, dove hanno pranzato due esperti di ‘gourmet’ e guide di ristoranti, trattorie, osterie e tra le ‘migliori pizzerie’. Davide Paolini (popolare per il Gastronauta) che da giudizi entusiasti dopo aver ‘mangiato’ alla Francescana. Di altro avviso (non ho mangiato da dio) per Luigino Filippi, l’imperiese – savonese, giornalista pubblicista, storico collaboratore delle Guide de L’Espresso e che nel 2013 aveva dato alle stampe una Guida tutta sua: 200 ristoranti “i migliori del Ponente Ligure e Costa Azzurra”. Come accade nel calcio, i ‘tecnici’ (buongustai) sono inflazionati, anche tra giornalisti della carta stampata, on line o televisiva. Capita di leggere o ascolti di ‘vere eccellenze’ e poi scopri che non è così. Gli affari vanno maluccio e non si fa la coda per trovare un tavolo. Quanti sono i commensali con la cultura di ‘mangiare con la testa e non con la pancia’. E quanti sono gli chef, i ‘maestri’ che possono fregiarsi del bagaglio culturale delle combinazioni alimentari e sanno associare correttamente gli alimenti ?
Davide Paolini sul sito Gastronauta scrive il 18 febbraio 2019: !”All’osteria Francescana sembra essere in un film girato da un Grande Chef. Alle 19.50, davanti all’ingresso di via Stella 22, a Modena, nonostante una serata piovigginosa e fredda, una decina di persone sono in attesa dell’apertura alle 20. Mi intrufolo tra loro e percepisco, in una Babele di lingue, l’aspettativa di un evento a lungo desiderato. Chi da mesi, chi da settimane, aspetta di sedersi a uno dei pochi posti dell’Osteria Francescana di Massimo Bottura.“
Il mio posto fortunato è nel tavolo di cucina, in solitudine, senza rumori se non le urla della brigata, tanta è la tensione, a ogni uscita dei piatti, così come si festeggia un goal. Di sicuro, in un tale contesto si può mangiare con la testa e non con la pancia (motto del Gastronauta). Già in passato, con un altro Max, grande chef, ho vissuto un’esperienza similare: tappi all’orecchia e uno specchio, dove vedere proiettate le reazioni alla masticazione e al piacere durante la degustazione. C’è chi pone differenza tra locali da “bosco e da riviera”, ossia da osteria e di stellati, ritenendo solo questi ultimi degni di riflessione, pur facendo le debite differenze, il ricorso alla testa di fronte a ciò che si introita è sempre imprescindibile. Un amico, Miguel Sanchez Romera, chef nonché neurologo, mi ha convinto che la cucina non è più solo un atto di piacere, ma è soprattutto una trasmissione di conoscenze o attraverso i sensi o con l’immaginazione.
Ebbene, la cena da Bottura mi ha offerto l’uno e l’altra: il piacere sensoriale e l’accensione della fantasia, già dalla prima proposta “Autumn in New York, come viaggio dell’anguilla”. Un crogiuolo di colori e sapori: la mela, i pesciolini, le patate, le affumicature che mi hanno trasportato nel film di Richard Gere, Autunno in New York, allorquando le scene mostrano il paesaggio della “Mela”, un caleidoscopio di colori caldi delle foglie che stanno per cadere. La mia cena continua con un altro film (per Max gli ispiratori sono sempre artisti): all’arrivo in tavola del piatto Burnt. Per continuare con il linguaggio cinematografico non dimentico l’anteprima della cena, gli assaggi gustosi prolegomeni dei piatti: frittura di aiole con gelato; macaron di coniglio alla cacciatora, borlengo di parmigiano reggiano, cialda di pane con finta sardina; corn on the cob: meringa che ricostruisce la pannocchia con dentro ceviche e guacamole. Eccoci al Burnt: un piatto tutto nero che emana un sentore di sarda arrostita alla griglia, con una cialda, fatta di farina al nero di seppia, ripiena di una crema al nero seppia. La mia memoria corre al film Burnt (Il sapore del successo), la cui trama è la storia di uno chef sempre alla rincorsa, ricca di cadute e risalite, alle tre stelle Michelin, in guerra con un collega che gli rovina, per vendetta, un piatto durante la visita degli ispettori. Mentre assaggio “il sapore del successo” (Burnt) di Bottura, penso però alle storie di quanti chef o cuochi si siano rovinati la vita, le finanze o abbiano cambiato la loro filosofia di cucina per correre dietro a una stella; viceversa c’è chi assapora l’affermazione di anni al vertice dei famosi 50. Chapeau alla rivalutazione della sogliola pesce spesso poco considerato, grande merito di Max di servirla in un piatto d’artista con un vestito degno di una principessa e cucinato con un procedimento molto raffinato. Così è la “sogliola mediterranea” perché contiene più processi: alla mugnaia, al cartoccio e in crosta di sale, quindi capperi, salsa al limone, acqua di mare disidratata e bruciata, le cui sfoglie sottili vibrano plasticamente per far emergere, lei, la protagonista delicata ed elegante.
“Wagyu non wagyu” non mi ha ispirato un film, ma quanta verità sul nome del piatto, ossia quanto tarocco (no wagyu, no Japan) e soprattutto mi è tornato alla mente un viaggio a Kobe alla scoperta di questa carne così pregiata, laddove i massaggi sono solo nelle fantasie dei racconti. Si tratta di un piatto originale nella costruzione con pancia e cuore di maiale, marinati, in vari strati, servito poi con un brodo tiepido di cipolla bruciata e profumato agli agrumi; è di fatto uno shabu shabu alla Max. Con la bizzarra proposta: “Quando mia mamma Mamma incontrò Bocuse“, in realtà appuntamento mai avvenuto, lo chef modenese mostra un paradigma tra la grandeur francese e la cucina locale italiana, al tempo stesso, un riconoscimento alla mamma come prima maestra di cucina. Bottura trasforma infatti la zuppa, dedicata da Paul Bocuse all’allora presidente Valéry Giscard d’Estaing, utilizzando ingredienti “poveri” quali le lumache in luogo di tartufo e foie gras, facendo ricorso al parmigiano reggiano in più strati quale chiusura del contenitore. E qui non posso che viaggiare con la memoria a Lione dove, a dir il vero, la zuppa VGE, mi è sembrata più conosciuta per la dedica che per la sua originalità.
Tutti i piatti mi sono stati serviti e narrati da Massimo: ogni ingrediente descritto, dettagliato il processo praticato in cucina, così anche per una delle sue creazioni più famose: “Cinque stagionature del parmigiano reggiano”, una trasformazione “alla Brachetti” di questo giacimento perché ne muta le sembianze più volte, creando una sinfonia di consistenze e sapori in demi soufflé, salsa, aria, galletta, spuma. “La faraona in tre servizi” ha nei ravioli di patate arrosto (alla cinese) un cameo di grande cucina, mentre la goduriosa pelle di faraona croccante, fegatini savor e tartufo mi ha “costretto” a mettere la testa in mora per andare solo di pancia. Il pensiero l’ho lasciato tutto all’omaggio a Cantarelli con la faraona alla creta. Il finale è stato una “camera cafè” perché il poliedrico “risotto di zucca”, cucchiaio dopo cucchiaio, non solo mi è stato raccontato (prima tortello alla mantovana, trasformato in risotto, cotto in succo d’arancia con un civet di lepre alla base, spolverata di amaretto e arancio amaro bruciato), ma addirittura imboccato dal number one al mondo! Confesso che ho partecipato a un “film” da Oscar di un grande Chef.
Davide Paolini
LA PAGELLA DI LUIGINO FILIPPI ESPERTO GOURMET IMPERIESE – SAVONESE
Sì, che cinema! Ecco il racconto di una cena alla Francescana. Purtroppo per quanto mi riguarda ho avuto una esperienza assai diversa. Bravi nel laboratorio di cucina, ci mancherebbe altro, ma per il resto la trama del mio film è stata: “Anonimo, vieni qui, ti siedi in un ambiente di design freddo e dai colori scuri, guardi rispettosamente quanto siamo bravi, ascolti la partitura senza soggiungere né fare troppe domande, se lasci qualcosa nel piatto sei un poverino che non capisci il genio e, se ti accontenti di due piatti chiedendo subito dopo il conto, scolpito a fuoco, vattene pure insalutato”…
Luigino Filippi, assicuratore in quel di Savona (ha passato il testimone), fa parte dello staff che da 40 anni seleziona nel ponente ligure e non solo, i migliori ristoranti per le guide dell’Espresso (già Gambero Rosso). Edoardo Raspelli sul quotidiano La Stampa l’ha definito: “…Guru della critica gastronomica ligure. Antenna del Ponente Ligure, Vate gastronomico….”
Sono oltre 200 mila le attività di ristorazione in Italia. Ebbene vengono selezionati i locali ” nei quali si può mangiare bene, dall’osteria alla ‘grande tavola’, dal fast food alla trattoria, dall’enotavola alla pizzeria”. L’edizione 2019 ne indica 3 mila e per 2000 più ‘meritevoli’ è dedicato un testo. La guida nel suo editoriale ricorda che “rappresentano il meglio della cucina italiana e sono consigliati“. E’ inoltre chiarito che “le visite dei nostri ispettori sono di regola anonime, le prenotazioni fatte con nomi fittizi, gli incaricati pagano il conto e l’indipendenza dei giudizi è garantita dall’assoluta libertà della redazione che opera nel totale distacco dalla pubblicità. Tutti i locali recensiti sono stati visitati ed in molti casi più volte rivisitati tra il 1° dicembre 2017 ed il 30 luglio 2018″.
Le Guide dell’Espresso e ancora prima e con maggiore diffusione ed autorevolezza internazionale la Guida Michelin, giudicano sulla base delle capacità, delle conoscenza e della cultura in gastronomia dei loro esperti, in parte dipendenti diretti (vedi Michelin). Non ha alcun peso dunque la pubblicità (pagine promozionali che pure contengono), né l’acquisto di copie, oppure essere collegati con grandi marchi di prodotti alimentari in rapporti d’affari con editori. C’entra la simpatia e l’antipatia, la giornata giusta o sbagliata. Non sempre i giudizi e voto sono a prova di infallibilità anche se man mano che si sale di punteggio, la ricerca della perfezione diventa puntigliosa o affidata a più di un palato. Non a caso i pluristellati, diciamo da tre in sue, le eccellenze da oscar sono soggette a più visite degli ‘ispettori’ se necessario.
IL VECCHIO CRONISTA, UNA VITA AL RISTORANTE – C’è un aspetto che da cronisti veterani ci è capitato di leggere e di cui non si trova traccia quando si parla di cucina e si ascoltano i consigli, i segreti di grandi chef o di addetti ai fornelli: parliamo di ‘combinazioni alimentari, come associare correttamente gli alimenti, cosa consigliare al cliente.‘ La corretta associazione degli alimenti, le regole fondamentali del nutrirsi bene. Pranzo e cena non dovrebbero essere alla pari quanto a menù e ingredienti. Non c’entra solo la digeribilità o meno (dipende infatti da stomaco a stomaco), andare o meno subito a letto, fare sempre quattro passi, lasciare un lasso di tempo tra la tavola ed il letto. Come non è salutare, dicono gli specialisti della nutrizione e non solo, la pennichella dopo un pranzo completo.
Qual è la cultura dei cuochi, anche quelli da oscar ? Sono consapevoli che è più difficile digerire alimenti mal combinati ? Conoscono la provenienza della materia prima e la filiera della produzione ? Dalla carne, ai pesci, alle verdure, alla farina, fino alle patate. Chi coltiva e produce in pianura e in montagna, dal mare, al macello. Cosa significa genuinità in tavola. L’uso di insaporitori. Pensiamo alla panificazione con i 67 additivi chimici e naturali nel libero commercio. La provenienza del grano o della farina, i trattamenti per non ‘perdere’, mettere a rischio le coltivazioni, dalla terra al piatto, al tipo di cottura.
Il cibo, elaborato nell’apparato digerente, diventa parte di noi stessi. Se gli alimenti sono di buona qualità e ben associati tra loro, è molto probabile che anche la nostra ‘rigenerazione quotidiana’ sia di buona qualità. Migliori difese organiche, più energia, minore ristagno delle scorie tecniche.
Non è una novità che al pasto completo sta prevalendo l’abitudine, iniziata dai popoli del centro e nord Europa, del ‘piatto unico‘, magari con due, tre alimenti ‘combinati’. Li chiamano ‘monopiatti vincenti‘. Spesso i mega menu che ci vengono proposti, in effetti sono un’accozzaglia di cibi, che a lungo andare logora e fa degenerare le nostre capacità digestive e ci priva di energia. Ecco l’importanza dell’uso corretto di verdure, cereali, carne , legumi, frutta. Cucina tradizionale, cucina delle nostre nonne, materie prime che non si trovano più allo stato naturale. Siamo nell’era degli allevamenti in acqua ed in terra. Pensiamo al mercato ittico, ovicolo, ai conigli cresciuti in batteria come i polli, alle lumache, alla farina del ‘nostro grano’. Certamente sarebbe sciocco ignorare, rifuggire, il contributo apportato dalla nuova alimentazione naturale in continua l’evoluzione.
Tutti o quasi sappiamo che ci sono più cause e concause per cui il nostro organismo è intossicato e acidificato: stress, aria ed acqua inquinate, scarso movimento, assunzioni di troppi cibi concentranti ed acidificanti, scarsa assunzioni di cibi acquosi ed alcalinizzanti, errate associazioni alimentari a casa o al ristorante, in pizzeria. Da qui l’importanza di conoscere (cuochi/e in primis) le regole fondamentali del nutrirsi bene e sano.
Qualche esempio più diffuso. Pastasciutta con arrosto: si finisce paradossalmente di nutrirsi peggio e assimilare meno. La carne permane a lungo nell’apparato digerente e inizia ad imputridire. E se con la carne si mangia qualcosa che non sintonizza, si creano difficoltà digestive già a livello gastrico, con conseguenze all’intestino. Solo alcuni aminoacidi possono essere utilizzati. Più i cibi sono grassi più va aumentata nel piatto la quantità di verdura cruda per controbilanciare l’effetto di rallentamento sulla digestione. E’ considerato ‘proibitivo’ per lo stomaco l’abbinamento di latticini e carni. Il latte forma una pellicola attorno alla carne e ne impedisce l’attacco enzimatico. Altro caso di combinazione errata: pomodoro e spinaci cotti sono acidificanti. Come non si dovrebbe mangiare uova e formaggio, carne e cereali, carboidrati e proteine, no a uova e legumi, no a carne e formaggio. Non abbiniamo la frutta dolce con la acida.
Per concludere, sperando di non aver annoiato troppo chi ha avuto la pazienza e l’interesse a leggere, sarebbe utile consumare il dolce lontano dai pasti. La prima digestione degli amidi inizia in bocca per proseguire nello stomaco. Neppure i dolci a fine pasto sono salutari, una delle nostre più afferrate abitudini come l’espresso. Gli esperti consigliano una giusta mediazione. Si tratta di personalizzare con buon senso un’alimentazione sana che possieda le principali nozione della ‘cultura a tavola’. E bisognerebbe iniziare a scuola, da ragazzi. Daremmo qualche dispiacere all’industria farmaceutica, a farmacie e parafarmacie. Gli ambulatori medici non sarebbero affollati.
Purtroppo accade anche che accendi la beniamina Imperia TV – speriamo che resista in lunga vita – e dagli agriturismo il giornalista reciti una rosario di ‘eccellenze’ a destra e a manca. Non giova purtroppo agli stessi operatori, perchè l’elogio è di maniera e non sempre meritato. Ha scritto Raspelli nella presentazione del libro di Filippi: “.…penso all’agriturismo dell’entroterra, il buon localino senza pretese, ma dalla cucina onesta e a buon mercato….come per i ristoranti della Riviera sono utili giudizi sereni e severi, seri, ben lontani dalle sciocche insipide inutili sviolinate tanto di moda oggi nel campo del cibo e del vino…“. Vale per la Tv e per ogni ‘addetto’ all’informazione. Meglio ancora se è un commensale che accetta gli inviti, ma mette mano al portafogli. Invece….
Luciano Corrado
LA DIVERTENTE RICERCA DELLE ABITUDINI DELLA TAZZINA DI CAFFE’ IN ITALIA E NEL MONDO